IL LAVORO. QUALCHE APPUNTO DI ANTROPOLOGIA
20 AGOSTO 2017
Sul piano antropologico l’uomo è chiamato a rimanere il soggetto della tecnologia, e non un oggetto. Il dispositivo tecnologico è e resta frutto della sua intelligenza. Occorre negare ciò che i fautori del dominio della tecnologia sull’uomo affermano: naturale è uguale ad artificiale. È quindi urgente creare organismi o istituzioni che garantiscano la governance dell’innovazione tecnologica. L’ho recentemente scritto sul sito di benecomune.
L’uomo e la macchina iniziano a interagire ma il loro equilibrio è, da una parte straordinario e meraviglioso, dall’altro delicato e rischioso. Siamo chiamati a vivere il presente sbilanciati sul futuro, senza sprecare troppe energie nel sostenere la tesi “era meglio quando stavamo peggio”. Tuttavia l’uomo potrebbe imparare a interagire con la macchina fino al punto di alienarsi nel mondo che essa ha creato e abdicare alla sua natura di homo empaticus. Così, ad esempio, egli potrebbe rinunciare al contatto con l’altro per trincerarsi nei luoghi dove presta la propria attività di lavoro grazie allo smart working, potrebbe non disconnettersi mai dal dispositivo mobile di cui a tal fine fa uso: grazie all’e-commerce riceve i generi di consumo, grazie alla stampa 3D realizza i manufatti di cui ha bisogno, tramite i cosiddetti «Mooc (Massive Open Online Courses)» riceve istruzione (per approfondire: Francesco Occhetta, Il Lavoro promesso. Libero creativo, partecipativo e solidale, Milano – Roma, Ancora – La Civiltà Cattolica, 2017. In libreria dal 7 settembre).
Si potranno conciliare meglio tempi di vita e di lavoro in conseguenza della possibilità per il lavoratore di prestare attività lavorativa da remoto, e dunque anche da casa in considerazione delle esigenze personali ed in particolare della cura della propria famiglia, per mezzo della connessione con una piattaforma digitale.
Di contro si potrebbe vivere in acquari creati ad hoc, che in realtà sono pseudonaturali. Si pensi alle esperienze di Googleplex, quartier generale di Google, dell’Apple Campus in fase di costruzione a forma di astronave e alla nuova sede di Facebook: un immenso spazio in comune al pianterreno dove i dipendenti possono lavorare insieme, piccoli spazi per lavori privati, una sala conferenze con all’interno una vasca piena di palline per rilassare e divertire i dipendenti e un’area verde di 9 km sul tetto con oltre 400 alberi. Si punta al c.d. water cool effect, creare in azienda il clima di relax che generalmente si crea nei momenti ludici.
Una competenza richiesta ai lavoratori è quella della gestione della propria autonomia. Non è solo tecnologia, ma anche antropologia, potremmo dire. Questa dimensione cambierà i rapporti gerarchici e richiederà uno sforzo di adattamento e una evoluzione soprattutto dal punto di vista manageriale. Per gestire queste nuove forme di lavoro sarà necessario, per il lavoratore, avere un equilibrio umano e spirituale da adulto. Il far coincidere in una casa o in un appartamento il luogo del lavoro e gli equilibri relazionali, affettivi e familiari potrebbe essere un fattore di crisi. Allo stesso modo, una disordinata gestione del tempo potrebbe appiattire sul lavoro anche quei momenti di riposo mentale, di gratuità e lucidità di cui la vita ha bisogno. Per questo alcune delle parole-chiave su cui si basa il lavoro 4.0 sono formazione, cultura, normativa e conoscenza.
Il lavoro 4.0 va pensato nelle logiche dell’economia del mercato, in cui non tutti i beni sono merci (ad esempio, la fiducia, la stima, l’amicizia). Se gestito esclusivamente secondo le logiche della società del mercato, che tende a monetizzare tutto, il lavoro 4.0 si realizzerebbe come negazione di se stesso. Le imprese competono nella conoscenza, e questa ha le sue premesse nella creatività, nella curiosità e nell’intelligenza, animata non dallo spirito capitalistico, ma da quello della cooperazione.
Sul piano antropologico l’uomo è chiamato a rimanere il soggetto della tecnologia, e non un oggetto. Il dispositivo tecnologico è e resta frutto della sua intelligenza. Occorre negare ciò che i fautori del dominio della tecnologia sull’uomo affermano: naturale è uguale ad artificiale (Cfr. Occhetta F., Benanti P., «La politica dinanzi alle sfide del post-umano», in Civiltà Cattolica 2015 I 572-584).
Si tratta di una sfida anche per il sindacato, dal momento che la legge di stabilità 2016 ha abilitato la contrattazione collettiva aziendale — e quella del 2017 (quasi sicuramente) anche la contrattazione nazionale — ad ampliare gli strumenti di welfare.
È su questa nuova cultura che deve fondarsi l’atto di fiducia del legislatore nei confronti del sindacato, in linea con la visione di Gino Giugni, il quale scorgeva nel sindacato la disposizione a interpretare i mutamenti del reale come conseguenza del carattere di elasticità del contratto collettivo «in rapporto al graduale mutamento delle condizioni tecnico economiche della produzione».
Poiché il processo di digitalizzazione coinvolge l’intera filiera industriale ed è in grado di trasformare il lavoro secondo le logiche dello smart working, anche le aziende manifatturiere dovrebbero scommettervi, almeno in tre ambiti: adottare nuove tecnologie di produzione, adattare i modelli di business e realizzare la trasformazione digitale.
Il successo di questa trasformazione si fonda su alcuni elementi cruciali: lo sviluppo delle competenze digitali; una maggiore collaborazione e integrazione tra i vari attori della filiera industriale; una gestione più strategica dei dati e delle informazioni in possesso; la sicurezza informatica per proteggere le attività operative in fabbrica.
La digitalizzazione può essere una grande opportunità per il nostro tessuto produttivo, ma è fondamentale agire ripensando l’organizzazione, le strategie e i processi in un’ottica digitale, per non restare esclusi da un sistema globale sempre più produttivo e connesso in tempo reale. E la riforma del sindacato è davvero urgente: molti dei lavoratori impegnati nei nuovi lavori non hanno tutele. Al centro della riflessione vanno poste le tutele proprie del diritto del lavoro che dovrebbero essere ripensate non solamente dalla contrattazione collettiva ma da quella aziendale che personalizza e tiene conto dei nuovi lavori per dare alle rappresentanze aziendali un potere effettivo. Per fare questa scelta occorre modificare l’art. 19 dello Statuto dei lavori del 1970.
I condizionamenti della tecnica non vanno sottovalutati. Deve rimanere un mezzo e non fine. Altrimenti l’uomo per competere con la macchina rischia di diventare una macchina. L’“incunearsi” di componenti artificiali elettronici e informatici, come connessione a device mobile, o come forma di enhancement, trasforma l’organismo in un “sistema integrato”, al punto da superare la distinzione classica tra umano e meccanico, tra naturale e artificiale. Siamo davanti all’uomo cyborg che, secondo il National Science Foundation (NSF), organismo governativo degli Usa, denota un sistema complesso composto da parti biologiche e dispositivi (devices) nanotecnologici.
Muta il concetto di vita. È “viva” l’entità che contiene e codifica informazioni, mentre il valore della vita è dato dalle informazioni che ogni entità processa. Considerare superiore l’informazione sulla materialità porta a cancellare, la linea di separazione tra naturale e artificiale. La vita, ridotta a conservare e ad elaborare informazioni, rischia di non essere distinta dagli apparati tecnologici che raccolgono, elaborano e trasmettono tali informazioni.
In questo nuovo scenario, per rispondere alla domanda finale su come gestire questi processi, è importante individuare la strada che, da un lato, porta a godere dei benefici dell’innovazione tecnologica, e dall’altro a superare la visione dell’uomo postumana. È utile chiedersi non tanto “How much is too much? (quanto è troppo?) ma “Why: perchè?”. La domanda originante deve essere quella di senso. Cosa sarà dell’uomo e del suo destino? La domanda sul perché delle tecnologie orienta il progresso stesso e definisce quello la chiesa chiama sviluppo umano.
È dunque urgente creare organismi o istituzioni che garantiscano la governance dell’innovazione tecnologica. Luoghi istituzionali che possano dar vita a forme di dialogo etico e antropologico per regolare umanamente le tecnologie verso una reale ricerca oggettiva del bene, incluso quello dei deboli e dei poveri.
La governance della tecnica-tecnologia diventerebbe l’argine con cui garantire l’innovazione tecnologica per limitare le forme disumanizzanti del post-umanesimo. La comunità internazionale è chiamata ad un discernimento interdisciplinare perché in gioco c’è il destino sul significato di ciò che è veramente umano al di là delle logiche del mercato che tende a economizzare tutto.
Il cambio culturale che, come una valanga, ha investito il mondo del lavoro va assunto come opportunità. È vero, il lavoro è afflitto da 7 grandi mali: investimenti senza progettualità; mercato senza responsabilità; tenore di vita senza sobrietà; efficienza tecnica senza coscienza (principi); politica senza società; privilegi senza ridistribuzione; sviluppo senza lavoro. Ma è altrettanto vero che il cambiamento possibile richiede di sostituire i “senza” con altrettanti “con”!
BY OCCHETTA.F
http://francescoocchetta.it/wordpress/?p=61807